Non posso che essere d’accordo, cara @Cristiana19 e non per piaggeria ma perché mi accade spesso, quando ti leggo.
Questo però è un tema delicato e a me molto caro, permettimi quindi di spiegarmi meglio (fosse solo per i malcapitati prossimi che s’imbatteranno su questa mia):
- In un mondo ideale nessuno avrebbe bisogno di etichette.
Ma rispetto al tema con cui ho esordito qui (quali strumenti di conversione stiamo mettendo in atto sulle diverse piattaforme?) è innegabile che stiamo parlando di puro marketing, tanto quanto è inconfutabile che tutti “apparteniamo” ad uno specifico cluster, netto o frastagliato, definito o liquido, in maniera consapevole o meno, tutti. Accade appena accendiamo il cellulare, quando strisciamo la carta fedeltà al supermercato o utilizziamo lo SPID, quando scegliamo una fiction napolitaliana su RAIplay o una serie indipendente danese su Disney+. Tutti, sempre. Certo, possiamo difenderci o limitare il danno - se lo riteniamo necessario - ma restiamo sempre parte di un target commerciale (single? Coppia con figli? Vegani? Pensionati con alto spending power?).
- Dici bene, il rischio di una “discriminazione per eccesso” c’è, perché in un mondo ideale non andrebbe specificata la nostra accoglienza alle persone appartenenti a specificità di razza, religione o orientamento sessuale.
Ma, nonostante il 2023, le testimonianze dirette raccontano diversamente: per esempio la coppia gay che prenota telefonicamente un tavolo con vista per il 1 anniversario di matrimonio, con tanto di torta col tulle rosa e un violinista elettrico che la accompagnerà fino al tavolo suonando un pezzo di Madonna. Tutto bene fino a che non mettono piede nel ristorante e consegnano la statuina che ritrae i due uomini sposati. Da quel momento viene dapprima proposto un “separé” per creare intimità (e occultare la coppia alla vista degli altri clienti) e, al rifiuto dei ragazzi, il tavolo non sembrerebbe più disponibile... casini, minacce di denuncia e la cena che doveva festeggiare il loro amore, ovviamente, salta. Oppure la ricerca spasmodica di una palestra (ma accade anche per i beauty center e/o le spa) che accetta la persona in transizione, perché nelle “normotipo”, per non creare imbarazzo agli altri clienti (sempre questa scusa) lo spogliatoio per chi è nato maschio ma si sente donna - o viceversa - non c’è, non esiste o, se sei “fortunato”, diventa il bagno disabili… E questo è nulla in confronto a Nicoletta, che prima di ogni check-in si ferma in un bagno pubblico per struccarsi e togliersi la parrucca e, nonostante questo, quando spiega che è Lei il Nicola che ha prenotato se va bene si trova davanti imbarazzo e occhi sgranati e se va male la non accettazione del confronto con il documento. È complesso Cristiana, le loro testimonianze ti catapultano in un mondo discriminante e che sembra antico, non siamo tutti uguali e dovrebbe essere un vantaggio, ma…
- E dici ancora bene: una icona/logo è “cosa vuota” se ad essa non corrisponde un comportamento coerente e fatti concreti.
Ma questa è la Società delle Immagini, dove quasi più nessuno ascolta un disco tutto intero (girando il vinile su entrambi i lati) o legge una recensione di un libro su una colonna e mezza. Playlist su Spotify e un tweet di cinque righe ottengono molti più riconoscimenti. Ci può piacere o meno, ma è la realtà o, almeno, il trend reale dei comportamenti e le tematiche “commerciali” riguardano sempre una “fetta ampia”, se non la massa, e più raramente il singolo individuo (anche quando sembrano cucite su misura proprio per noi, è sempre mktg). Anche a me sa’ tanto di “coloured only”, ma ci sono anche icone buone, come il Bio, il Made in Italy, il badge di SuperHost…
Detto questo, ci tengo infine a sottolineare che il webinar, e la conseguente certificazione con la “valigetta arcobaleno”, non è una “medaglietta” o categoria creata dalla piattaforma blu; il seminario è stato ideato e condotto da HospitableMe, una realtà ben radicata nella comunità LGBTQ+ e attiva sul tema http://hospitable.me
Booking ha “solamente” intercettato e sfruttato commercialmente quella festa di mercato.
Ti confesso che anche io pensavo di non aver bisogno di informazioni vista la mia apertura, le mie relazioni e le mie esperienze ma, anzitutto, ho imparato tantissimo: dalla storia del linguaggio inclusivo, al corretto approccio rispetto alla autodeterminazione di genere (siamo tutti fermi a un acronimo di 4/5 lettere per indicare la comunità LGBTQ, mentre ad oggi si contano 19 lettere per descrivere i termini di genere) e, soprattutto, al logo segue un toolkit con ancora tante best practices e una guida LGBTQ+ sul quartiere/città, che va dal “dove mangiare” alla “vita notturna” ma anche ai “servizi sanitari” e quelli dedicati alla “comunità”.
Insomma, non è la panacea ma per me è diversamente utile e affatto discriminante ma poi, come si dice, la pornografia è negli occhi di chi guarda…