A SPASSO PER MILANO SOTTO LA NEVE
Svegliarsi e accorgersi che la lente che ingrandisce l’eccellenza del Turismo e dei suoi attori dallo scorso marzo quassù si è rotta. Ora ha rovinato la festa, rimpicciolendo i turisti fino a farli scomparire.
Non sono mai stata così consapevole del caos determinato dalla paura del contagio come in questi mesi e ci penzolo sopra attaccata ad un filo.
Ma il filo tiene, e penso che alla fine tutto si ricomporrà, il danno sarà riparato. Il tempo ha sempre riparato le cose, anche se tre mesi fa un tizio che stava programmando di venire da me, probabilmente al terzo giro di gin, mi ha scritto: “Io voglio far parte di quel dieci per cento che sopravviverà e ristabilirà il mondo”.
Ho riso forte, ma il mio muscolo dell’ospitare è dolente.
Applico una pomata antidolorifica, e in questo scenario di dolente mestizia in cui tutto pare ostile ed estraneo, e perfino la bellezza del mondo sembra sbriciolarsi di fronte al volto seduttivo della paura, entro nel mio Getsemani, il treno delle sette, osservando di sguincio persone torve e lagnose che si muovono rapide come galline impazzite, e, sotto il carico doloroso di ansie logoranti, cercano sui giornali notizie fresche di Mr. Covid, poi, mi levo di dosso l’odore del treno e l’odore del mondo e scappo attraverso il ponte delle Sirenette che, in questo delirio fra caos e sostanza, mi sembra un piccolo, sicuro angolo frondoso di universo dove un ragazzo porta una ragazza che ama.
Ma camminare in inverno è qualcosa di molto diverso dal farlo in estate. Il parco, innevato e immobile, comincia a svuotarsi di suoni. Tutto risulta attutito. I pochi suoni sporadici rimasti nel parco paiono crescere di forza e intensità quando hanno come sfondo il silenzio.
Percepisco solo il mio respiro, simile al sibilare di una valvola, che si alza e si abbassa e scie di fumo si levano dalle labbra.
Il bianco è l’assenza di colore, ma in questo caso è diverso, è come se il bianco diventasse per me la rivelazione di una privazione interiore, l’espressione visiva della scomparsa dei “miei” viaggiatori.
Lancio rametti nell’acqua che è una sciarpa di luce, ma non so quando riproverò il brivido caldo dell’ospitare.
E’ sciocco. Ma cos’è quella specie di incidentale tenerezza di cui sembro avere un bisogno così violento da offuscare il mio buonsenso? Cos’è questo misterioso bisogno di accogliere sconosciuti? Un anello di una lunga catena di desideri profondissimi di quando ero bambina? Una benedizione o una perdizione? Che sia l’età?
Sul tram semivuoto penso a quella carica di forza, coraggio e determinazione che suscita in me l’hosting. Su un post-it giallo scrivo: “Ciao Milano! Guarisci presto!” e lo attacco al finestrino del tram, e, all’improvviso, sono assurdamente felice.