Oggi ho aperto la scrivania di papà, che adesso è nel mio studio, e finché è stato vivo stava nella sua camera da letto.
Apro il cassetto piccolo in basso, c'è il guestbook, ci sono le foto Polaroid, i biglietti da visita, gli indirizzi, i numeri telefonici, le e-mail degli ospiti che in questi anni sono stati qui.
Dentro il cassetto c’è anche questo sentimento strano, questa cosa che mi viene voglia di chiamare “Ricordi felici”. La sento salire, un piacere tranquillo e inossidabile, come una birra gelata in una giornata afosa.
Quando voglio rivivere una gioia dimenticata, apro questo cassetto della memoria, quasi con riverenza e con timore. Basta così poco in fondo. Mi concedo il permesso di stare bene, proprio ora, solo per pochi attimi.
Dentro quelle pagine c’è un richiamo all’indietro, che mi riporta al tempo in cui, senza tante smancerie e strategie di marketing, ospitavo i turisti a casa mia. Ma non siamo forse solo turisti in questa vita? Turisti e basta, né santi, né superuomini, semplicemente turisti di passaggio su questa terra, che è una sfera.
La bellezza fragile di un semplice “Grazie” che, in un amen, ribaltava il mio cuore guardingo. Parole, disegni, steli di fiori secchi appiccati che ti facevano conoscere non solo il loro che loro a volte mostravano, ma il loro che loro erano davvero.
Poteva essere l’estate 2009. I primi ospiti. Ricordo quel giorno. Sembra ieri. Pioveva forte. Una pioggia accanita. Ero eccitata come un’adolescente. Seppi solo farfugliare poche parole.
Tristezza che si taglia con il coltello, tutto diventa più intenso, più vivo. Rivedo papà, rivedo me stessa, una sagoma semitrasparente come in quei film di fantasmi di una volta, c’è la sagoma di me accanto a John e Carol sul divano, fatto con grandi cuscini trapuntati, Daresh in primo piano che cucina il biryani, mentre io sullo sfondo preparo una parmigiana di melanzane, un perfetto connubio tra oriente e occidente desacralizzato.
Stare in casa mia, perché è sempre stata casa mia, ci ho abitato per tanto tempo, dopo il trasferimento di papà, anche se dopo è diventata la “casa dei turisti”, ed è andata a finire che io ci stavo dentro come se fosse loro, ed anche adesso che non l’affitto più ai turisti, ma a persone con altre esigenze, ma non meno urgenti, è rimasta casa loro per sempre. Troppi ricordi. Troppi “personaggi” sono passati da questa casa.
Sento voci in avvicinamento che mi chiamano, le risate di Hoshiko, la “camminata strana” di Ermelindo, i balli irlandesi di Owen, le urla della signora Wanda quando quei matti di Yuki e Sem le allagarono il salotto, la corsa pazza sul Maggiolino nero di Isabel quando Amandine si tagliò un braccio nel bagno, cadendo da una scala.
Ho conosciuto inglesi più inglesi di una partita di cricket, francesini très joli, spagnolite vampiresche, curvosissime magiare, indiani-giacca-cravatta-turbante bianco purissimo, giappocinesi completamente persi per Bellini e Puccini, tutta una fauna, zampettante e cicaleccia, nient’affatto sconfitta dal tempo, che lì lazzaronava galeotta in un agglutinante razzolio semi-chic & semi-freak, ma, persa nel gergo mischiato e cencioso di questa bellagente, ho avuto l’incredibile possibilità di girare il mondo, stando comodamente seduta sul divano di casa mia.
E mentre questi ricordi irrompono nella mia mente dal fondo più profondo del mio retroterra emotivo, ripongo il libro, che contiene il cuore segreto degli ospiti, e lentamente richiudo il cassetto della memoria.