Come l’hosting mi ha cambiata? Che cosa ricordo con più intensità? E’ davvero difficilissimo spiegarlo a chi ancora non l’ha provato. Ed è semplicissimo da spiegare, anzi, inutile a chi lo ha vissuto.
Ho indossato la casacca di short renter dieci anni fa a Milano, cominciando ad affittare alcune stanze di casa mia a incerti cercatori del “pittoresco”, agli esposti alle intemperie e ai cumulonembi, a sbilenchi girovaghi dell’erranza, a hipster affamati di viaggiare, a pellegrini che, entrando nelle foreste, uscivano forestieri. Coabitando con loro.
Per me, con un padre sempre in viaggio, è stato un modo per riempire uno spazio delimitato da pareti che mi erano ostili di voci, suoni, profumi, risate e ricordi.
E’ stata un modo per riempire una solitudine che non sapevo più maneggiare, uno sbarazzarsi di me, un riprendersi la vita senza sapere su quale strada fosse.
E’ stata una scommessa, una speranza di vita nuova, una roulette russa, un aprire me stessa al mondo, un ignorare il domestico per scoprire costantemente cose nuove, un modo per non continuare a sottrarmi a tutto.
E’ stata la sensazione limpida e pacificante di scambiarci confidenze a notte fonda, arrivando a conoscere in quei pochi giorni non solo il loro che loro a volte mostravano, ma il loro che loro erano davvero.
E’ stato il condividere, in leggero controtempo, ancora dormienti, il caffè del mattino con una compagnia colorata e curiosa di Milano, soprattutto una compagnia facile, di quella facilità che viene dal fatto che non si sa nulla l’uno dell’altro.
E’ stato avere pronti più mazzi di chiavi, fare ruotare i mappamondi per interi pomeriggi di pioggia per vedere dove viveva Balthazar o Kilian.
E’ stato assaltare la città, finire a mangiare tutti insieme cibi di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza sul terrazzo la sera, in un agglutinante razzolio semi freak & semi chic, coi vicini che ci spiavano dietro le finestre.
E’ stato ritrovarsi a fare la guida turistica, la consulente matrimoniale, la personal shopper, la visagista, la degustatrice di tè.
Sono stati incontri fortunati (sto parlando dei “tempi d’oro” di Airbnb, quando le persone si accontentavano di poco), ed è stato poi quella scommessa iniziale a dimostrarmi, negli anni, che ne valeva la pena.
Cosa ne ho ricavato? Ne ho ricavato, oltre a del denaro, una forma di felicità. Se felicità è una parola troppo ingombrante, provo a riformulare così: ne ho ricavato una forma di benessere, un sentimento potente di meraviglia.
Con il senno del poi, mi sorprende ancora il mio desiderio incontenibile nell’ospitare seguaci del culto di Mitra, vagabondi del Dharma, fedeli di una religione politeistica, agnostici, atei, bianchi, neri, belli, brutti, zoppi, farabutti, onesti, ignoranti, istruiti, prepotenti, sudici. Ognuno di loro ha sedimentato dentro di me qualcosa.
Forse perché l’ospitare accetta il “nonostante”. Nonostante i disaccordi, nonostante il parquet rigato, nonostante il non piacersi, nonostante le “piccole-grandi” stanchezze, come l’amore di Baglioni, ma niente più del condividere gli spazi privati della tua casa può farti comprendere che cosa sia quella cosa chiamata “Ospitalità”, “Accoglienza”.
E’ una parola allegra e solare, un tripudio di umanità, di organismi vivi e vitali che si aprono all’altro, si accolgono l’un l’altro, qualcosa che va oltre le deturpazioni civili di questi giorni, e ben al di là delle nostre piccole miserie.