Nelle case degli altri gli eterni viandanti tengono sempre accesa l’aria condizionata, la lavatrice e il forno, mentre si asciugano i capelli.
Dire di non farlo perché salta la luce non serve: i transumanti, con i loro fagotti annodati al bastone, non sentono.
Scriverlo non serve: i nomadi ambulanti, che hanno un DNA segnato dall’inquietudine motoria e dalla curiosità geografica, non leggono.
Nulla di quello che dice o scrive l’ospitante interessa veramente a chi si sposta in terre lontane.
Alcuni forestieri scambiano il bidet per il water, con tutte le conseguenze del caso quando ci si accovacciano sopra.
Il cartello sopra il bidet non serve: i vagabondi erranti, senza l’ingombro di vecchie mappe, non leggono.
Le lettere non gli arrivano sugli occhi e poi nella rete corticale e sottocorticale del cervello, non arredano la loro vita come le loro canzoni preferite.
Nelle case degli altri, nelle loro cucine, se appoggi la Moka sul top della cucina, danneggi la superficie.
Dire di usare un sottopentola non serve: i viaggiatori, morsi dalla tarantola del moto perpetuo e di un Altrove, non sentono.
Scriverlo non serve: i rocker in pensione, sempre ubiqui e alla ricerca di sensazioni insolite, non leggono.
Il suono delle parole che vengono dette attraversa l’aria, ma non li investe, non arma la loro curiosità più del calcestruzzo.
Chi offre a degli sconosciuti un quadrato di materasso per far riposare il corpo altrui e un quadrato di cielo per fargli riposare gli occhi, detta regole, orari e recinzioni.
E’ un despota illuminato che crede che l’hosting si srotoli al suo passaggio come il tappeto rosso per i principi delle favole, ma chi si muove per il mondo scavalca regole, orari e recinzioni perché gli impediscono di far salti di gioia e limitano la sua condizione di libertà. Né barriere urbane né regole scritte su carta o su App possono rallentare il suo passo.
Se facessi il conto delle ore che ho passato, in piedi o seduta, tra spegni le luci e chiudi porte e finestre quando esci, non accendere forno, lavatrice, split e phon, butta i sacchetti della spazzatura differenziandoli, prima di partire rimetti i mobili nella loro posizione e controlla i cassetti, forse riuscirei a dare una misura della baraonda relazionale in cui mi sono trovata in questi anni, ma non posso: non esiste un contatore verbale, forse perché il conguaglio delle nostre conversazioni sui massimi sistemi gestionali di una casa e i minimi sentimenti possibili sarebbe un numero impressionante.
Ho l’impressione che mi cadrà la lingua mentre ripeto le stesse parole per l’ennesima volta. Ho perfino preso in considerazione l’idea di scrivere una e-mail preimpostata:
Caro/a amico/a mia,
se vuoi venire qui, devi sapere alcune cose. Mi dispiace parlartene tramite una e-mail. Mi dispiace parlarti del bidet, della Moka, del phon. Mi dispiace tantissimo.
Ho persino pensato di creare un sito: www.cosaaccidentihaicombinato.com con tanto di FAQ.
Ospitare, molto incautamente, degli sconosciuti non è esattamente una passeggiata di salute. Il vivere è incidentato. Il terreno è friabile. L’equilibrio è instabile.
Il quid della questione, l’”oh” della realtà è che chi è rimasto contagiato dal morbo dell’ospitalità amatoriale o professionale, nella tensione dello sforzo non trova mai la sua pace interiore, perché l’hosting è uno scaturire di imprevisti e di certezze impossibili. E’ uno spazio di rischio, una traversata insidiosa tra il baratro del successo e il baratro del fallimento.
Ma chi ospita non molla mai, la dà a bere se necessario, ma non molla mai.
In un annuncio, con gergo sincopato, scrive “No animali” e in uno small talk la prima cosa che gli speranzosi irragionevoli guest chiedono, sedotti da un minialloggio, con lavaggio scale, è se va bene portare due cani di razza Husky.
Ma i figli dell’Algoritmo, monitorati, datificati e profilati, ospitano, continuano ad ospitare, tenaci come Messner sul Nanga Parbat e un grande angelo buono li sorregge con un’ala sola.